Bersani ha le spalle al muro
di Pietro Senaldi Solo tre mesi fa, il (leader?) del Pd Bersani era presidente del Consiglio in pectore. La sua gioiosa macchina da guerra andava dall’estrema sinistra di Vendola al moderato Casini e la strada per Palazzo Chigi gli era spianata. In più, a differenza del Pdl, il Pd riusciva a far pesare a Monti i suoi voti in Parlamento, condizionando l’attività di governo e arrivando a disfare provvedimenti non graditi al suo elettorato e alla Cgil, come per esempio la riforma Fornero sul lavoro. Ma ora è cambiato tutto. A partire dal nemico numero uno, che non è più Berlusconi, il cui ritorno ufficiale sulla scena anzi potrebbe paradossalmente aiutare il soggetto dell’imitazione più riuscita di Crozza, restituendogli un punto di riferimento sicuro e un campo di battaglia noto. I nemici più pericolosi oggi sono in casa, o quasi, e si chiamano Renzi e Monti, sempre più sostenuto da Napolitano, che per un Bersani premier non ha mai spinto. Il presidente del Consiglio, tanto più tradisce la sua voglia di non tornare in cattedra e accreditarsi come statista quanto più marca la distanza dal segretario Pd. Dal Professore ormai arriva una coltellata al giorno. Ha cominciato rivelando di aver creduto nella Forza Italia degli albori, proposto a Maroni di diventare suo ministro dell’Interno. Ha continuato affermando di aver sponsorizzato Berlusconi in Europa presso il Ppe, senza preoccuparsi di alimentare così voci mai smentite di un patto post-elettorale con il Cavaliere. Ma poi ha proseguito virando sul concreto e, nell’ordine, ha ammesso che le tasse hanno portato recessione, si è lamentato che qualcuno non gli ha fatto fare tutte le riforme necessarie a far uscire dalla crisi il Paese e si è detto spaventato da un ritorno della politica nella stanza dei bottoni, fino ad arrivare a polemizzare apertamente col sindacato, specie la Cgil, che di Bersani è gran portatrice di voti. Ieri, lo schiaffo più doloroso, l’affermazione che lo Statuto dei Lavoratori, caposaldo di tutte le battaglie della sinistra e Stalingrado anti-berlusconiana per eccellenza anziché difendere posti di lavoro ne ha fatti perdere. Bel siluro per chi ha in Vendola il suo alleato di ferro, aveva speso tutto ciò che poteva per far fallire il referendum per la sua abolizione. Non meno dolorose sono state le bordate arrivate dal rivale di partito Renzi, al quale è stato sufficiente sciorinare concetti che la sinistra anglosassone ha fatto suoi da 25 anni per affermarsi come il nuovo e spedire Bersani anzitempo nel mausoleo delle mummie comuniste. Il rampante sindaco di Firenze ha sconfessato il programma tutto tasse e patrimoniale che il Pd sta predisponendo con Sel per uscire dalla crisi, ha teso la mano agli elettori di Berlusconi e ha bollato come «sinistra che non vuol governare» quella immortalata dalla «foto degli orrori» che ritrae il bersaniano Vendola in compagnia Di Pietro e dei marxisti Diliberto e Ferrero fuori dal Palazzaccio della Cassazione, dove la combriccola veterocomunista aveva appena depositato una richiesta di referendum contro quel che resta della riforma Fornero. Insomma, in un colpo solo, Renzi ha superato l’antiberlusconismo, che di Bersani è stata l’arma vincente, e archiviato come «modello culturale perdente» l’alleanza con Vendola e compagni. Risultato, il segretario Pd si trova all’angolo, schiacciato a sinistra su Vendola al punto che perfino la Bindi ha lanciato l’allarme: «Stiamo tornando comunisti, ed è tutta colpa di Renzi». Bersani prova a reagire, da qualche tempo non parla più di tasse, ammonisce il compagno Nichi dicendogli che «deve cambiare e ha perfino polemizzato con la Cgil sull’articolo 18, sostenendo che «la priorità ora è creare lavoro». Ma inseguire Renzi è un gioco pericoloso perché alle primarie della sinistra, se mai si faranno, va a votare sì qualche progressista illuminato, ma il grosso dei voti si divide tra militanti convinti legati alle storiche battaglie della sinistra e trinariciuti cresciuti a retorica e lotta di classe. Renzi se ne può fregare perché non corre per vincere ma per marcare la propria differenza, Bersani non può non tenerne conto; è all’ultimo giro di giostra, se le primarie gli vanno male o ad aprile non sarà premier finisce a fare il sindaco di Piacenza un po’ come Fassino con Torino... A Renzi invece basta conferma il look di uomo nuovo, di sinistra ma anche no. Un profilo che gli consente di sedersi sulla riva del fiume e attendere di vedere scorrere il cadavere delle mummie Pd, magari dopo una fallimentare esperienza di governo marcatamente di sinistra o dopo un risultato alle urne che neppure permetta la formazione di un governo. E a quel punto, non solo i berlusconiani potrebbero sostenerlo.