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Marcello Dell'Utri, ecco la vera storia raccontata dalle carte

Andrea Tempestini
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Dell'Utri è tornato ed è in galera: ieri mattina è atterrato a Fiumicino con un volo da Beirut e un'ambulanza l'ha portato subito in carcere a Parma, dove un centro clinico potrà sorvegliare i postumi dell'intervento al cuore a cui si è sottoposto due mesi fa. È lo stesso carcere dove c'è Totò Riina e dove c'era Bernardo Provenzano. Dell'Utri deve scontare 7 anni. Dopodiché, senza girarci attorno, la domanda resta la stessa: esiste una terza via tra innocentisti e colpevolisti? Esiste un terzo dell'Utri tra il raffinato bibliofilo e il grezzo affiliato? Tra Publitalia e una cosca? Forse esiste, sì, ed è desumibile dalle stesse carte che la difesa ha utilizzato per dipingerlo come un giglio e che l'accusa ha utilizzato per inchiodarlo alla sua sicilitudine. Carte accumulate dal 1994 a oggi. Ci si occupa dell'accusa principale, naturalmente: della mafiosità, non del cascame residuale fatto di improbabili estorsioni a Berlusconi, abusi edilizi, false fatture, cazzate tipo P3 e altre sciocchezze da sovraesposizione. Il cuore del problema è la storia di un uomo che si incaricò e fu incaricato di proteggere Berlusconi - consenziente - in anni in cui la criminalità e la mafia prendevano di mira soprattutto imprenditori come il Cavaliere. Mettiamola così: se anche fosse stato un mafioso, Dell'Utri, sarebbe stato un mafioso di serie C. Certo, i giudici palermitani hanno scritto di un "sodalizio mafioso", ma in pratica il reato di Dell'Utri (non di Berlusconi, che figura come vittima) consistebbe nell'aver riagganciato un vecchio amico in odore di mafia, Gaetano Cinà, affinché le sue conoscenze consentissero di arrivare a grossi calibri mafiosi: questo al fine di apprendere, dai medesimi, le condizioni che potessero consentire una pax imprenditoriale e familiare per Berlusconi. Un mediatore: Dell'Utri è configurato come un canale di collegamento (neppure particolarmente quotato) tra alcuni estorsori professionali e un'emergente realtà industriale che negli anni '70 non poteva illudersi - come non avevano potuto illudersi la Fiat o la Ferruzzi, per dire - di non pagare dazio alla criminalità. I magistrati hanno scritto di "accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell'Utri... è probatoriamente dimostrato che Dell'Utri ha tenuto un comportamento di rafforzamento dell'associazione mafiosa fino a una certa data, favorendo i pagamenti a Cosa nostra di somme non dovute da parte di Fininvest". Pagare la mafia, o farla pagare, in quest'ottica viene equivalso a rafforzarla. Si potrebbe azzardare una similitudine: è come scoprire che un esercente pagava il pizzo per proteggere la sua attività e la sua famiglia e che un suo dipendente, delegato a "risolvere problemi", fece tutto ciò che ritenne necessario per risolverli. Ma c'è una differenza sostanziale: pagare il pizzo in Italia non è reato (anche se certa giurisprudenza vorrebbe che lo fosse) e però le cose cambiano se vai a parlare con quelli che il pizzo lo pretendono, e che magari ti hanno già fatto saltare la saracinesca del negozio: questo in Italia - e solo in Italia - configura il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, che presuppone una connivenza coi tuoi estorsori. In Italia una "mediazione" del genere viene equivalsa a un appoggio alla mafia: al pari, giurisprudenza alla mano, di medici che abbiano curato mafiosi o di preti che li abbiano confessati. In genere per avvalorare questa giurisprudenza si ricorda che fu Giovanni Falcone, il 17 luglio 1987, a firmare una delle prime sentenze che prefiguravano il concorso esterno in associazione mafiosa: ma, nei fatti, il giudice non si sognò mai di contestare questo reato da solo, senza un corollario di altre e individuate ipotesi di reato. Naturalmente le similitudini valgono quello che valgono, e pm e giudici in realtà hanno avvalorato scenari più foschi: ma neanche tanto, e comunque sono rimasti perlopiù indimostrati. Anche la celebre assunzione di Vittorio Mangano come stalliere di Arcore, in fin dei conti, rientrò in un quadro di tutela dell'incolumità della famiglia Berlusconi. Poi vai a sapere quanto sia davvero credibile il racconto del pentito Francesco Di Carlo, secondo il quale nel 1975 ci fu addirittura una riunione "negli uffici di Berlusconi" alla quale parteciparono Dell'Utri e i boss Girolamo Teresi e Stefano Bontade. La Cassazione ha ritenuto credibile l'incontro, e in quella sede, a suo dire, fu presa la "contestuale decisione di far seguire l'arrivo di Vittorio Mangano presso l'abitazione di Berlusconi in esecuzione dell'accordo" sulla protezione ad Arcore. Quel che è certo è che c'erano da proteggere le emittenti televisive che Fininvest cominciava a gestire in Sicilia. E che, come ha confermato la Cassazione, in fin dei conti i rapporti di Dell'Utri con Cosa nostra sono provati soltanto dal 1974 fino al 1977. Questo è il “mafioso" Dell'Utri, che vanamente si è cercato di dimostrare che sia rimasto mafioso anche negli anni della formazione di Forza Italia. Ma questa tesi, cara a Ingroia, non è passata. Tutto il resto, quasi per stanchezza, sì. di Filippo Facci @FilippoFacci1

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