Vittorio Feltri, "Buoni e Cattivi: "Se Michele Santoro è giornalista è colpa mia che l'ho promosso"
Buoni e cattivi è il nuovo libro scritto da Vittorio Feltri con Stefano Lorenzetto (Marsilio, pp. 544, euro 19,50): un catalogo di 211 nomi e volti noti di politica, magistratura, imprenditoria, giornalismo, spettacolo e sport passati al vaglio dei ricordi e del giudizio come sempre lucidissimo del «Vittorioso». L'elenco dei personaggi, dalla A di Agnelli alla Z di Zeffirelli, evoca un po' Montanelli, con i suoi ritratti di figure decisive, anche se non sempre positive, del nostro tempo. E si presta a un sequel. Il catalogo, un po' the best of e un po' bestiario, è anche una raccolta di pagelle. Si parte dalle eccellenze, come Oriana Fallaci e Nino Nutrizio, cui viene assegnato un 10 e lode. Si passa a Giorgio Napolitano e Matteo Renzi, che ottengono rispettivamente 4½ e 5. E si arriva ai somari, come Alfano, Amato e Boldrini che prendono 3, e ai peggiori - Cederna, Fini e Lusi - cui spetta il 2. La vera sorpresa è Marco Travaglio,«forse il più bravo giornalista d'Italia», cui Feltri regala un 9. Ci sono gli inaffidabili, come Sandro Pertini, che voleva far arrestare Feltri a Nizza. Ci sono le coppie come Hunziker-Trussardi, che Feltri fece incontrare. Poi figurano gli editori-fregatura, come Montezemolo che costò a Feltri, direttore de l'Europeo, 150 milioni di lire per videocassette scadenti e Urbano Cairo, che fece sborsare a Feltri 300 milioni di lire per un aumento di capitale di Libero non sottoscritto; e Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente Ior, che avrebbe dovuto essere tra gli editori di Libero. E poi Giuliano Ferrara, alla cui lista «Aborto? No, grazie» Feltri diede a sorpresa il suo voto. Anche volendo, non potrei parlare male di lui. Se lo facessi, equivarrebbe a spararmi nei marroni. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione all'esame di Stato che lo promosse e gli consentì l'iscrizione all'Ordine nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall'Italia con Sandro Pertini in tribuna d'onore. L'unico motivo per cui accettai di far parte della commissione esaminatrice – composta da due magistrati designati dal presidente della Corte d'appello di Roma e da cinque giornalisti professionisti, iscritti nel relativo elenco da non meno di 10 anni – si chiamava Alberto Cavallari. Pur di allontanarmi dal direttore che mi mobbizzava, diedi la mia disponibilità all'Ordine e ottenni dal Corriere il permesso retribuito per trasferirmi a Roma a selezionare gli aspiranti scribacchini. Da allora, mai più ripetuta l'incresciosa esperienza. Non si rivelò un lavoro di tutto riposo. Era da poco stato liberalizzato l'accesso alla professione e venivano ammessi agli esami d'idoneità professionale anche cineoperatori, fotoreporter, conduttori di radio e televisioni private. Una bolgia. Saranno stati almeno 400 candidati. Un bel po' li segammo alla prova scritta di aprile. Ne restarono in campo 250 agli orali di maggio e giugno. Fra questi, Santoro. E non solo: ho sulla coscienza altri tipi sinistri di quella sessione, come Giuseppe D'Avanzo, Curzio Maltese, Federico Rampini, Loris Campetti, Daniele Protti, Maurizio Mannoni e Cinzia Sasso, la cronista della Repubblica che, dopo aver tirato la volata a Giuliano Pisapia, se l'è sposato due mesi prima che diventasse sindaco di Milano. Roba che temo ancora, a distanza di anni, una class action da parte dei lettori per i guasti che la combriccola ha provocato. Attilio Bolzoni, mafiologo presso la medesima Repubblica, per fortuna no. Quello non mi può essere addebitato. Infatti non superò l'interrogazione. Lo bocciammo e dovette ripresentarsi all'esame l'anno successivo. Il che non gli ha impedito, trascorso un quarto di secolo, di vincere il premio È giornalismo, alias premio Stalin. Come si vede, il merito prima o poi viene sempre riconosciuto. Basta avere solo un po' di pazienza e mettersi in coda sulla corsia giusta. Da quell'infornata uscì anche qualche firma ortodossa, per esempio Mauro Crippa, oggi gran sacerdote dell'informazione Mediaset, e Mauro Tedeschini, fior di professionista che ha già collezionato cinque direzioni: il Quotidiano Nazionale, Italia Oggi, Quattroruote, La Nazione e Il Centro. La vita del commissario esaminatore aveva qualche risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati. Ancora non avevo maturato la convinzione che l'Ordine dei giornalisti fosse un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d'esame. Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore? Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell'articolo che aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s'iniziava la lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all'udire l'attacco familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino, e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore ricevuto. In questo modo passavano l'esame (e lo passano tuttora) asini sesquipedali. A quell'epoca Santoro non era proprio un giovincello: 31 anni. Pesava 20 chili meno di adesso. Aveva i capelli scuri (non tinti) e un bel volto da meridionale intelligente. Gli occhi erano da matto furbissimo. Non rammento nulla della sua prova scritta. L'orale, viceversa, ce l'ho stampato nella memoria. Non era ancora un personaggio televisivo, ma si capiva che trattavasi di predestinato: lingua sciolta, grande capacità d'improvvisare, prontezza di riflessi. Non ebbe alcuna difficoltà a superare la formalità richiesta dalla legge per esercitare un mestiere che, per quanto sia stato burocratizzato in modo indecente, s'impara solo facendolo con passione. E lui di passione ne ha sempre avuta, fin troppa, al punto che in breve tempo me lo ritrovai in video. Conduceva Samarcanda con assoluta padronanza del mezzo. Non ne fui sorpreso. I dati d'ascolto del programma erano da capogiro: 7 milioni di telespettatori. Che per Rai 3 erano uno sproposito. Da lì in poi Santoro galoppò sicuro da un successo all'altro (Il rosso e il nero, Tempo reale) fino a sconfinare in territorio nemico nell'autunno del 1996, quando lasciò la Rai per diventare conduttore di Moby Dick sull'Italia 1 del Berlusca. Non male per uno che proveniva dal nucleo maoista dell'Unione comunisti italiani e da Servire il popolo. Aveva inventato una formula nuova che piaceva specialmente alla gente di sinistra. Per la prima volta il pubblico partecipava alle discussioni, non era relegato ai margini con l'esclusivo compito di applaudire a comando. Un format sostanzialmente rimasto immutato nel tempo, che consente a Santoro di furoreggiare, amato e odiato, comunque atteso nelle sue performance. Ogni volta fa centro: con Sciuscià, con Il raggio verde, con Annozero, con Servizio pubblico. Ogni volta costringe anche chi lo detesta ad accendere il televisore, magari solo per sacramentargli contro. La polemica, la provocazione, la faziosità sono gli ingredienti che hanno sempre reso le sue trasmissioni imperdibili. È un arruffapopolo, un Masaniello, una birba, un efferato scassapalle costantemente al centro dell'attenzione. Silvio Berlusconi, oltre ad assumerlo, gli ha anche offerto il destro, da premier, di potersi atteggiare a martire dell'informazione sulle note di Bella ciao. Altro che «editto bulgaro». È stata l'apoteosi dello scugnizzo riccioluto, che con una cantata da partigiano stonato s'è guadagnato, nell'ordine: l'elezione a europarlamentare dell'Ulivo; il successivo ritorno in Rai per sentenza di un giudice del lavoro; un risarcimento dei danni stratosferico (1,4 milioni di euro); il reintegro nel ruolo di conduttore dei programmi di prima serata; la riconsegna in diretta del Santo Graal – il microfono – nientemeno che dalle mani di Adriano Celentano, durante una celebre puntata di Rockpolitik chiusa da Santoro al quadruplice grido di «viva la fratellanza, viva l'eguaglianza, viva la cultura, viva la libertà». Olà! In quell'occasione, con tono accorato, assicurò alle figlie che lo stavano guardando d'aver sempre «agito con onestà e correttezza». Peccato che, mentre lo diceva, continuasse a strofinarsi il naso con la mano. Rammento che si toccava la proboscide ogni dieci secondi. Ahi ahi. Evidente indizio di menzogna, avrebbe concluso Desmond Morris, studioso del comportamento umano e animale. Quando si raccontano bugie, aumenta la produzione di catecolamine, le mucose nasali s'ingrossano e subentra l'impellente e inconsapevole necessità di grattarsi le frogie per calmare il fastidioso prurito. Comunque per me Santoro, al netto del suo settarismo intollerabile, potrebbe anche infilarsi le dita nel naso e resterebbe comunque bravo. Mille volte meglio lui di quel cicisbeo di Giovanni Floris. Quello proprio non lo reggo, lui e il suo sorrisino da ebete. Voto: 6 di Vittorio Feltri