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Yara, tutti i dubbi: il Dna potrebbe non bastare per incastrare Massimo Bossetti

Andrea Tempestini
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Il grande accusato ha rotto il silenzio: "Sono totalmente estraneo", ha spiegato Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto assassino di Yara Gambirasio, al termine del suo interrogatorio davanti al gip. L'accusato spiega che la sera del 26 novembre 2010, quando Yara scomparve, era casa. Il cellulare spento? "Era scarico". Nessuna confessione, dunque. Nessuna ammissione, che certo renderebbe il caso molto più semplice. E il caso, invece, ora si complica. Ci sono diversi tasselli che aspettano di essere messi al loro posto. Il papà - Il primo riguarda Fulvio Gambirasio, il padre di Yara, che ha affermato di non conoscere e di non aver mai visto il presunto assassino. Eppure, rivela Panorama, i due lavoravano nello stesso cantiere nei giorni in cui la ragazzina è scomparsa all'uscita della palestra di Brembate Sopra: il primo con la sua ditta che realizza coperture per costruzioni, il secondo come muratore. Panorama, per confermare la teoria, cita le dichiarazioni dei colleghi che in quei giorni lavoravano insieme a loro. Il test del Dna - Certo, ad "incastrare" Bossetti c'è il test del Dna. Eppure non è tutto così semplice. Il perché lo spiega a La Stampa Carlo Federico Grosso, professore di Diritto Penale all'università di Torino, che fu il primo difensore di Annamaria Franzoni nel processo Cogne. "La prova del Dna - spiega - è una della più inattaccabili. Certo, però, se è su questo punto che vacilla l'accusa, la difesa può avere gioco facile nel tentare di smontare l'intero impianto accusatorio". L'esperto aggiunge che "se veramente sarà stabilito, come appare leggendo i giornali, che sulle mutandine di Yara è stato trovato del sangue e che quel sangue appartiene a Bossetti, almeno in astratto potrebbe bastare questo anche ad arrivare a una condanna in cui la prova sia stata considerata dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio, come vuole la Cassazione". L'origine - Il problema, però, è che proprio sull'origine del Dna ci sono delle incertezze. Nel dettaglio non è certa la natura della traccia trovata addosso alla vittima: non si è certi se sia saliva, sangue o altro. Grosso spiega che questo "è certamente un problema per l'impianto accusatorio che può diventare anche molto grave. La Cassazione - ribadisce - ha fissato con molta nettezza il principio che la prova deve essere data oltre ogni ragionevole dubbio. Se non è più così, se la difesa sarà in grado di avanzare una ricostruzione alternativa dei fatti, questo potrebbe mettere in discussione l'intera costruzione. Credo che dal punto di vista dell'accusa a questo punto sia importante ripetere il test per chiarire bene la situazione". Chi frena - E a auggerire prudenza sugli esami genetici è anche il consulente tecnico della famiglia Gambirasio, Giorgio Portera, ex ufficiale dei Ris e genetista forense. Questo perché le tracce di dna che sono al cuore dell'accusa sono molto piccole, e non possono essere analizzate all'infinito. Quelle tracce si vanno via via esaurendo, ora non ci sono più. Per analizzarle si deve fare affidamento a quella che in gergo tecnico viene chiamata la "stringa", ossia la catena genetica registrata e memorizzata nel corso delle analisi, che però ha un valore scientifico inferiore, in particolare se in ballo c'è una condanna pesantissima. Il cellulare - Infine, a complicare ulteriormente il quadro, c'è il cellulare di Bossetti, che venne agganciato un'ora prima della scomparsa di Yara a una cella che copre la zona sud di Brembate Sopra, dove la ragazzina fu rapita. Il punto è che la cella si estende fino alla zona di Piana di Mapello, otto chilometri più a sud, proprio dove si trova la casa di Bossetti. Fino al giorno successivo, fino al 27 febbraio 2010, il cellulare dell'uomo non si è mai agganciato a una cella diversa, e non si è mai agganciato a quella di Chignolo d'Isola dove il corpo di Yara venne prima abbandonato e poi ritrovato.

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