Il Venezuela di Chavez e Maduro (e Sean Penn) l'ultimo fiasco del Sudamerica socialista
Nella cronaca del fiasco socialista sudamericano entra, anzi sarebbe meglio dire si conferma con prepotenza, il Venezuela. Non e' che non si sappia infatti da anni che Hugo Chavez aveva indirizzato verso la miseria il paese preferito da Sean Penn e dai sinistri che fanno le rivoluzioni con la pelle degli altri. Ma adesso, dopo che nel dicembre scorso alle elezioni per il rinnovo del parlamento i partiti di opposizione hanno conquistato una solida maggioranza, il seguace di Chavez, l'attuale presidente Nicolas Maduro, sta facendo precipitare oltre il livello di sopportazione la situazione economica, politica e sociale di una nazione che galleggia sui giacimenti di petrolio e potrebbe essere un eden in terra se ci fosse una amministrazione diversa, liberale e pro sviluppo invece che marxista e pro fame. L'ultimo atto che mischia demagogia clientelare e disperazione e' il decreto del governo che “regala” tre giorni pagati di festa (alla settimana!) a tutti i dipendenti pubblici. Lavoreranno soltanto il lunedi' e il martedi', ma avranno la stessa paga di prima. La misura e' il risultato di un altro fallimento: manca l'elettricita' per l'illuminazione e per far funzionare i macchinari e i computer, e quindi bisogna chiudere gli edifici pubblici per razionare la corrente. I venezuelani sono da tempo abituati alle privazioni e alle “tessere” per ogni genere di prima necessita', dal sapone al latte, dalla carta igienica alle batterie. E quindi, nelle interviste alla gente dopo l'introduzione della “settimana cortissima”, c'e' chi ha risposto, e non per fare dello spirito, “cosi' avremo piu' tempo per stare in coda ai negozi”. Il paese e' al collasso, con l'inflazione reale oltre il 100% e la valuta locale svalutata: come a Cuba, solo chi ha i dollari degli odiati (dagli chavisti) americani trova da vivere. Il popolo, dopo essersi mobilitato con successo per ridurre in minoranza il partito socialista di Maduro in Congresso, si e' trovato di fronte il muro istituzionale eretto dal presidente, che ormai governa solo con la protezione della Corte Suprema, infarcita di suoi lacche'. Per arduo che sia il procedimento costituzionale, comunque, i venezuelani si stanno dando da fare. In un giorno i gruppi di opposizione hanno raccolto 1,1 milioni di firme per avviare la richiesta di elezioni antipate che rimuovano Maduro. Ne bastavano 198mila, ma per sicurezza ne hanno ammassate cinque volte tanto, perche' ora deve convalidarli –entro un mese - il National Electoral Council, che e' un organismo governativo in mano a funzionari messi li' da Maduro. Superato il primo esame, gli oppositori dovranno raccogliere circa altre 4 milioni di firme in tre giorni per far scattare ufficialmente il meccanismo della ‘defenestrazione' del presidente. Se si arrivera' alle urne davvero, gli elettori dovranno ottenere piu' voti dei 7,5 milioni che ebbe il presidente nel ballottaggio del 2013. E' una corsa contro la burocrazia politica di Maduro e contro il tempo, perche' se il referendum si terra' dopo il 10 gennaio prossimo, anche se gli elettori riuscissero a “licenziare” Maduro, fino al 2019 resterebbe in carica il suo attuale vice. Come dire che le attuali politiche, e l'agonia del Venezuela, continuerebbero per altri 3 anni. Comunque, e' inevitabile ed evidente che in America Latina i nodi socialisti stanno venendo al pettine a uno a uno. In Argentina, alle recenti elezioni, e' stata finalmente sfrattata la famiglia dei peronisti-sinistri Kirchner, e ora c'e' un governo moderato di centro-destra. In Brasile e' in pieno corso il processo parlamentare per l'impeachment di Delma Roussef, la comunista delfina di Lula Silva, ex presidente inguaiato a sua volta in scandali di arricchimento personale. Di Delma, e della sua ormai irreversibile parabola politica, abbiamo scritto in un articolo di qualche settimana fa a proposito delle accuse contro di lei e Lula di corruzione e di falsificazione del bilancio pubblico brasiliano. Dei Castro a Cuba si sa che, mentre il papa e Obama amano andarci per l'abbraccio con il regime rosso che aiutano a stare in piedi, i cubani non ne possono piu' e scappano dall'isola come possono, via mare o via America Centrale. Lo fanno a un ritmo fortemente accelerato, dalla fine del 2014, dalla paura che gli USA, fatta la pace con Fidel e Raul, aboliscano la legge che da' ai cubani il privilegio della carta verde se toccano il suolo americano. di Glauco Maggi twitter @glaucomaggi